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ALBUM DEL MESE (SCORSO): “Rainer fog”

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Scusate il ritardo, ma a me piace avere il tempo di ascoltare (e digerire) i nuovi album prima di scriverne.

Nel frattempo mi è capitato di leggere diverse recensioni di quest’album e tutte possono essere riassunte in una manciata di punti:

1- l’album non è male, anche se non ci sono più gli Alice in Chains di una volta.
2 – Il ritorno a Seattle si sente perché si respira l’atmosfera delle origini, anche se non siamo più negli Anni ’90.
3 – L’album ha un bel sound, anche se è più morbido dei precedenti.
4 – Il fantasma di Layne Staley aleggia anche su questo disco, facendo rimpiangere la sua assenza.

Beh, è tutto vero e la mia recensione potrebbe finire qui.
Eppure credo si possa aggiungere ancora qualcosa: un paio di riflessioni che forse chiariranno il motivo per cui quest’album mi piace (e non poco).

 

 

Ho sempre considerato gli Alice in Chains il più grande gruppo della scena grunge. I loro riff ossessivi, chiusi, senz’aria rendevano meglio di altre forme musicali l’inquietudine disperata della generazione X. Ascoltare l’album “Dirt” per intero è un’esperienza soffocante ma autentica, sincera. Li rispettavo e li stimavo per questo, come si può apprezzare l’onestà di un medico capace che ti diagnostica senza giri di parole una grave malattia.
E questo male si è portato via Kurt Cobain, Layne Staley, Chris Cornell… forse per questo Dave Grohll, uno dei sopravvissuti, da subito ha preferito darsi a un genere indubbiamente più commerciale (e ora, giustamente, è diventato il testimonial dello “style rock” nel mondo… ma almeno è ancora vivo!). Forse per questo l’ultimo singolo dei Pearl Jam sembra un incidente tra The Hives e Alex Britti…
Ed eccoci al punto: anche gli Alice in Chains sono dei sopravvissuti. Chi scampa a un naufragio o a una grave epidemia ne resta segnato e non ne parla volentieri. Il ritorno a Seattle ha risvegliato certe atmosfere, ma anche la consapevolezza di essere diversi, cresciuti, ancora vivi.

 

 

Se avessero pubblicato un “Dirt” post-Staley sarebbero stati falsi e manieristi. Invece questo sound nuovo, “nickelbackizzato”, mi dà l’impressione che comunque non mi stiano prendendo in giro.
“Never fade”, “Maybe”, “Fly” vanno decisamente in questa direzione, mentre “All I am”, “The one you know” o “Deaf ears blind eyes” ci ricordano che stiamo ascoltando gli Alice in Chains (e ancora si sente).
La title-track poi, una cavalcata quasi punk, è il brano che forse mi ha più convinto. Della vecchia rabbia resta solo un duro pestare, forse perché nella scatola nella quale erano rinchiusi ai “bei” tempi di “Man in the box” sembra essersi spalancata una finestra che dà sul nebbioso Rainer. Di nuovo a casa?

 

Brian

Amo mangiare, bere, dormire e... Cosa mi distingue da un grosso orso? Pochi peli e l'amore per la musica. Genere preferito? Femminile, naturalmente! PS: sono marito, padre e professore, ma questa è un'altra storia...

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