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Sono andato a vedere DAVIDE VAN DE SFROOS @Arcimboldi (Milano, 31/01/16)

Andando a sentire Davide van de Sfroos a teatro, accompagnato da un’orchestra, non sapevo proprio cosa aspettarmi: temevo che il successo gli avesse dato alla testa. Invece è stato come rincontrare un vecchio amico (chi lo segue dai primi album ha la sua voce tatuata nel cuore). Semplice e schietto come un parente istrione che ha bevuto troppo al cenone di Natale, eppure in grado di rendere, attraverso la magia della parola, ogni esperienza opera d’arte.

 

L’ho visto assolutamente libero di osare, perché consapevole che a quel momento era stato il “vento” (“che si riconosce da ciò che muove”) a portarlo.

Chi ha familiarità col cantautore comasco sa che questa metafora è onnipresente nella sua poetica. Egli chiude il brano “Il dono del vento” (anch’esso riarmonizzato nel progetto Synfuniia) cantando dei giunchi, il cui movimento dipende dalle correnti d’aria e non da loro stessi, suggerendo che l’atteggiamento più lieto e liberante da parte loro sarebbe benedire il dono di farsi cullare.

Ebbene, fin dalle sue prime dichiarazioni, capivo che la coscienza con cui il Davide ci proponeva l’esperimento sinfonico era quella di chi è curioso di vivere questa sorpresa del destino: per esempio, ha raccontato come l’idea di riarrangiare i suoi brani non fosse nata da una sua megalomane pretesa, ma dall’iniziativa di un altro, in particolare del maestro Vito Lo Re.  Come disse in un’intervista rilasciata a Panorama:

Non mi è venuta nessuna idea. È stata una cosa che è capitata con l’arrivo della figura del M° Vito Lo Re. Mi si è presentato prima come “fan” e poi come compositore. Mi ha proposto questo progetto, che inizialmente sembrava davvero bizzarro.

 

Un mero esecutore quindi? Assolutamente no. Lo showman che tutti conosciamo ha tenuto banco per quasi tre ore in uno spettacolo a tratti esilarante (come quando ha commentato ogni momento delle avventure di Sandokan e compagni o quando ha spiegato l’origine “flatulenta” del titolo Synfuniia), muovendosi a suo agio tra melodie nuove, più adatte, sulla carta, a colonne sonore che a canzoni folk. Lui, che per sua stessa ammissione, non lo sa neppure leggere uno spartito!

 

 

All’apertura del sipario ci ha accolto la visione di un’intera orchestra schierata composta di fronte al palchetto del direttore e sullo sfondo uno schermo in cui campeggiava un’illustrazione raffigurante un Davide a metà tra un direttore d’orchestra e un mago incantatore. Dato il luogo, io avrei giocato maggiormente con la scenografia, con oggetti che dessero forza ai lunghi racconti di quest’ultimo tra un brano e l’altro, che aiutassero, visivamente, a drammatizzarli, anziché puntare tutto sullo schermo di fondo (peraltro spesso fisso sulla stessa immagine).

 

Ma veniamo alla musica.

IMG_3693Solitamente, in questo genere di esperimento, l’orchestra va ad arricchire canzoni che, tuttavia, mantengono intatta la loro identità, per lo meno ritmica: in altre parole si affianca alla band per conferire ai brani un’atmosfera nuova, più suggestiva e raffinata. Penso sia la prima volta che vengono suonati brani di musica leggera in cui un’orchestra sostiene in toto l’accompagnamento, sobbarcandosi l’onere di ritmarne l’andamento, oltre che di tesserne la melodia.

Per quanto ogni strumento musicale porti con sé suggestioni profonde, suggerite dallo stesso frontman in apertura del concerto, la mancanza del trio batteria-basso-chitarra ritmica si fa sentire, soprattutto nelle canzoni più mosse, quali Yanez o Grand Hotel. Tra queste fa eccezione Il duello, che “finalmente suona come era stata sognata”.

Bene invece i brani lenti: La figlia del tenente, Akuaduulza, Ninna nanna del contrabbandiere e la già citata Il dono del vento; quest’ultima con un’armonizzazione dal sapore orientale, che l’ha resa quasi irriconoscibile, legando indirettamente le metafore del testo al mondo degli Haiku, da cui, effettivamente, sembrano sbocciare.

 

 

Lo spettacolo era diviso in tre momenti: nel primo, dedicato a Synfuniia, DVDS introduceva ed eseguiva i brani presenti nel disco, accompagnato dall’Orchestra Sinfonica della Radio Nazionale Bulgara.

Nel secondo, come una parentesi dal clima più intimo e raccolto, il cantautore, dopo aver chiamato sul palco i compagni di una vita Anga e Billa, ha eseguito con loro 40 pass e Sciur capitan (animata dalla proiezione di splendide illustrazioni “bonelliane”, firmate Claudio Villa). Nel farlo ha ricordato che: “questo momento passerà, difficilmente potremo bissare l’esperimento. Non posso non viverlo con chi ha condiviso tutto con me”.

Nella terza parte, la più inaspettata e pretenziosa, il Davide si è calato nei panni del grande Tom Waits, proponendo al pianoforte (novità assoluta) una versione dialettale di Frank’s wild years. Ora, Tom Waits è Tom Waits e il nostro lo sa: la ripresa del testo è stata quasi letterale, l’ironia e la forza dell’Autore non son state banalizzate, anzi, son diventate ancora più schiette, genuine, vere. Esperimento riuscito (e lo dice uno che stravede per il cantautore di Pomona).

 

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Nel finale tutti in piedi, battendo le mani al ritmo di De sfroos e Pulenta e galena fregia, diretti dallo stesso Davide che, per l’occasione, ha affiancato il maestro Lo Re, facendo risuonare il gran “calderone” degli Arcimboldi, gremito di un pubblico davvero eterogeneo e partecipe, che per quasi tre ore si è immerso in un mondo che riaffiorava dal passato –restando comunque sempre attuale-, cullato da sperimentazioni musicali “cinematografiche” e suggestive.

Il tempo è volato senza andar perduto, come chi muove le cose non visto.

 

Brian

Amo mangiare, bere, dormire e... Cosa mi distingue da un grosso orso? Pochi peli e l'amore per la musica. Genere preferito? Femminile, naturalmente! PS: sono marito, padre e professore, ma questa è un'altra storia...

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